Antenna 112 ed il pensiero di Martin Georg Egge

Università di Padova, 16.05.2001
ANTENNA 112
Una struttura terapeutica
per la terapia delle psicosi Infantili

Martin Georg Egge
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Prof. Ferlini: il dott. Egge è neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, psicoanalista lacaniano e dirige l’Antenna 112 che è una struttura per bimbi in grave difficoltà. Ci Parlerà del Centro che Dirige e dei piccoli pazienti che incontra. Lo ringrazio fin da ora di essere intervenuto.

Dott. Egge: Ringrazio il prof. Ferlini per avermi invitato a questo incontro di oggi.
Io sono direttore terapeutico dell’Antenna 112 di Venezia che è stata fondata quattro anni fa a Venezia – Marghera; attualmente è una struttura che accoglie otto bambini: in parte sono a livello residenziale, cioè dormono lì durante la settimana, tornano a casa sabato e domenica, in parte frequentano il Centro a regime diurno, cioè vanno a casa alla sera. Questo dipende anche dalla lontananza, da dove i genitori abitano. Gli operatori sono attualmente dieci, tutti psicologi. Ma al di là della qualificazione professionale, la cosa che più importante è che chi sceglie di lavorare da noi sia interessato a questo tipo di lavoro che è molto difficile, perché è una struttura che si rivolge a bambini ed adolescenti psicotici ed autistici.
Attualmente i bambini ci vengono inviati non perché hanno questa patologia, ma per un problema in più si dovrebbe dire, perché i bambini che ci vengono inviati sono bambini per cui la rete sociale è saltata del tutto. Ciò vuol dire che sono tutti bambini per cui si sono fatti già dei tentativi per aiutarli: sia sostenendo la famiglia con educatori a casa, sia a scuola con insegnanti di sostegno, sia a livello ambulatoriale con terapie ambulatoriali 2-3 volte alla settimana. Vuol dire che tutte queste cose sono state provate e non hanno funzionato nel senso che o non c’è stato nessun cambiamento visibile o, nonostante tutti gli sforzi, ci sono stati addirittura dei peggioramenti.
Un altro problema per cui i bambini vengono inviati normalmente non è legato alla gravità della patologia, ma all’aggressività ed autoaggressività di questi soggetti che spaventa molto gli operatori.

Infatti una parte dei bambini è stata inviata prima in altre strutture che non sono riuscite a tenerli. Per esempio c’è un bambino, con una situazione familiare molto pesante, che a suo dire vuole diventare una ballerina, che è stato inviato ad un istituto di suore dove continuamente toccava i bambini maschi, ma anche le suore, li voleva baciare etc, e le suore non sapevano come gestirlo; dopo poco tempo l’hanno rimandato a casa. Non c’era una struttura che volesse accettare questo bambino con questo tipo di difficoltà.
Un altro bambino, quando non si faceva quello che voleva, diventava estremamente violento ed in queste occasioni i servizi sociali e l’ULSS non sapevano più cosa fare ,per questo l’hanno inviato da noi. Ciò vuol dire che l’invio di questi bambini non avviene perché si pensa che siano soggetti da curare ma perché non sanno più dove metterli, tutta la rete del sistema è saltata. Quindi noi siamo una struttura, non so come dire, che si occupa di quella che non di rado è stata definita “spazzatura” dell’umanità e noi cerchiamo di fare tutto il possibile per questi bambini che non vuole proprio più nessuno.
La questione ora è per quale ragione io ho spinto che venisse creata questa struttura. Sono arrivato in Italia 18 anni fa, sono d’origine tedesca, ho fatto la specializzazione a Berlino ed ero molto meravigliato di come le cose funzionassero in Italia perché in Italia esisteva, con la legge 517 del ’74, una situazione completamente differente dal resto del mondo. Tutti i bambini handicappati venivano integrati nelle strutture normali e sono state chiuse le scuole speciali, cosa che non esiste da nessuna altra parte al mondo. Io posso dire questo: ho visto bambini che hanno avuto un grande vantaggio da questo inserimento perché non vengono segregati in un ambiente, come è successo per esempio in Germania, dove io lavoravo in un manicomio per bambini, in cui c’erano 100 bambini in un luogo.
Qui in Italia ho visto delle situazioni in cui i bambini si sono messi al lavoro in un contesto sociale molto più ricco di quello che può essere quello di una struttura in cui si mettono tutti i bambini in difficoltà.
Ho visto invece due situazioni, due patologie, per cui questo inserimento non ha funzionato bene e cioè con i bambini psicotici da una parte e dall’altra con bambini gravissimi. In entrambi i casi gli insegnanti non sanno con chi allearsi. Si può dire che sia con i bambini psicotici – quando c’è una certa gravità – sia con i bambini gravissimi, la scuola è in enorme difficoltà. Per questo, quello che succede è che, anche se nella scuola materna l’inserimento dell’handicap funziona ancora, a partire dalla scuola elementare e ancora di più alle medie, quest’inserimento diventa sempre più fasullo per i bambini con handicap, tale che non si riesce ad agganciare in nessun modo ai contenuti scolastici previsti o quando non prestano alcuna attenzione per l’insegnamento previsto. Allora questi bambini vengono di fatto segregati con l’insegnante di sostegno nell’aula di sostegno e questo, chiaramente, non è la socializzazione che si auspica. Infatti il problema in fondo è sapere “che cosa si può offrire ai bambini quando non socializzano?”
C’è stato lo slogan: “l’emarginazione ferisce, il sociale cura”. Quando si dice questo, allora si dovrebbe anche dire che cosa vuol dire “socializzare” per un bambino psicotico.
La socializzazione in generale significa accettare delle regole per la buona convivenza ed accettare delle regole vuol dire accettare una rinuncia pulsionale, accettare di non poter fare ciò che si vorrebbe fare in quel momento lì; socializzare vuol dire che vengano accettate delle leggi. Quando il bambino che chiamiamo normale accetta delle rinunce pulsionali, perché lo fa? Perché normalmente si dice, in cambio “se io rinuncio a ciò che vorrei fare”, se per esempio un bambino vuole uscire con la bicicletta, invece di prendersela, chiede prima a sua madre e le da la possibilità di decidere per il sì o il no. In fondo quello che interessa al bambino è di stare bene. Ma lo sa che questo benessere dipende per lui che l’adulto, che gli sta vicino, gli dimostri di volergli bene, di amarlo. Questo vuol dire che quando c’è una rinuncia pulsionale è, come rovescio della medaglia, implicata la domanda d’amore.
Che cosa succede invece nel bambino psicotico? Mentre il bambino normale cerca di essere amato dall’altro, il bambino psicotico invece è normalmente in una situazione di diffidenza verso l’altro, anzi molto facilmente se l’altro comincia ad imporsi diventa vissuto come persecutorio.
Questo vuol dire – come si vede in modo più evidente nel bambino autistico – che si chiude verso il mondo esterno dicendo “o tu fai quello che dico io, o ti elimino dal mio mondo”.
Ma anche in altre situazioni, come per esempio nel bambino schizofrenico, si può vedere questa diffidenza verso il suo Altro, quando tratta il proprio corpo come fosse Altro da sé, e comincia in momenti di tensione con autoaggressioni, spesso molto forti, a picchiare il proprio corpo.
Nella situazione paranoica invece in cui l’Altro prende una valenza persecutoria, si vede che, quando il bambino entra in angoscia, tende ad aggredire questo Altro o, come diciamo noi, a “regolare l’Altro sregolato” con delle reazioni spesso molto forti e molto aggressive. Quindi, in qualche modo, chi ha visto un bambino psicotico diventare così aggressivo, ci pensa due volte a provocarlo un’altra volta. Chi ha visto questi soggetti appena si è cercato di imporre loro dei limiti, come si fanno male in questo stile radicale, si picchiano sugli occhi, si feriscono al collo o sbattono la testa contro il muro, ci pensa due volte la prossima volta ad imporre la propria volontà. Ciò vuol dire che lo psicotico tenta di dare all’Altro un limite, di regolare l’Altro persecutore, che non si comporti mai più così, che non si permetta più di dettare legge.
Qui si pone allora la questione: perché succede tutto questo? Lacan ci dice cosa succede nel bambino detto normale o nevrotico – qui la differenza tra normalità e nevrosi è legata alla produzione o meno dei sintomi – un’altra questione invece è cosa succede nella psicosi.
Per spiegarlo meglio vorrei fare una piccola introduzione parlando di come nasce il soggetto secondo l’insegnamento di Lacan e cioè che tutti bambini nascono come oggetto dell’Altro materno. Per raggiungere la posizione di soggetto il bambino deve fare un percorso e in questo percorso c’è qualcosa nel bambino psicotico che non funziona.
Che cosa succede normalmente ad un bambino piccolissimo? Il bambino quando nasce si trova in un bagno di parole. Ciò vuol dire che il linguaggio per il bambino è già presente prima che egli capisca cosa significhi. Anzi, si può dire che il mondo simbolico lo riguarda già prima che nasca. Per esempio, quando i genitori scelgono un nome per il bambino e parlano delle loro attese che hanno nei confronti del figlio, ad es.,“Vorrei che il mio bambino diventasse medico, un gran calciatore, eccetera”. Questo vuole dire che a livello simbolico il bambino precede addirittura alla sua nascita, è già presente nella mente dell’Altro, questo significa che è legato fin dall’inizio a livello simbolico all’Altro genitoriale.
Quando nasce un bambino che cosa percepisce? Sente le parole perché sono nell’aria, sente parlare il genitore, sente la televisione, la radio, eccetera. Tutto il mondo è preso dal significante, da parole che il bambino sente senza sapere che cosa significhino tutto ciò. E cosa fa il bambino? Comincia con grande piacere ad imitare le parole in modo ecolalico, prende frammenti di parole dall’altro, sente le parole e comincia a dire: “Mammamama, papapa”. Il particolare è che queste parole inizialmente non si rivolgono a nessuno. Detto in altri termini, il bambino entra nel campo del linguaggio a livello del puro piacere.
Successivamente il bambino scopre che non tutto esiste in funzione sua ma c’è qualcosa che gli sfugge. Come viene percepito dal bambino piccolo che non tutto è in funzione sua? Lo percepisce quando c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Per questo si può dire che il bambino piccolo percepisce la madre quando la madre fallisce. Finché tutto funziona il bambino non è disturbato nel suo benessere, non capisce che cosa appartiene al mondo esterno e che cosa invece appartiene al bambino stesso. Ma dove la madre fallisce, lì capisce che c’è qualcosa che non va, qualcosa che non è sotto il suo dominio, c’è qualcosa che gli sfugge, gli è ostile, non gli ubbidisce. E’ lì il bambino capisce che è in balia di qualcosa, di qualcuno che successivamente viene individuato come il suo Altro materno – Altro scritto con il maiuscolo – perché ha il potere di soddisfare o meno i suoi bisogni.
A partire da questa scoperta, le questioni del bambino non riguardano più solo i cosiddetti bisogni primari, di essere nutrito o pulito, ma va molto più in là. E cioè, se il potere di poter soddisfare o meno i bisogni del bambino è legato a ciò che si chiama Altro materno, tutto si gioca su cosa può fare il bambino per attirare l’attenzione di questo Altro, dal quale dipende. Detto in altre parole: che cosa può fare il bambino per essere amato da questa persona, per attirare l’attenzione di questo Altro su se stesso, che ha il potere decisionale su di lui in una situazione nella quale il bambino dipende ancora completamente dalle cure materne? In questa situazione, l’Altro materno viene percepito come onnipotente, colui che ha il potere di soddisfare o meno il bambino. La questione del bambino non riguarda più il bisogno d’essere nutrito, ma che cosa può fare perché la madre si occupi di lui, lo ami, unica condizione che lo possa garantire per non essere in preda all’angoscia in questo mondo caotico. La questione che si pone allora il bambino non riguarda più quella d’essere nutrito, ma tutto dipende in primis da quella che potrebbe garantire questi cosiddetti “bisogni primari”, cioè dalla domanda d’amore.
Prendiamo per esempio le ricerche fatte da Renè Spitz sull’ospedalismo. Nelle sue ricerche descriveva bambini che erano ricoverati in ospedali di pediatria, nutriti perfettamente, curati perfettamente e nonostante questo avevano dei sintomi molto gravi. Inizialmente presentavano dei segni di depressione – si parlava di depressione anaclitica – dopo si passava ad una situazione di ribellione – c’erano bambini che piangevano per tanto tempo – e dopo una terza fase in cui passavano nell’apatia, tutto questo nonostante questi bambini fossero curati alla perfezione.
Che cosa non ha funzionato con questi bambini? Questi bambini sono stati trattati come oggetti da curare. Ma quello che chiede il bambino in fondo è di non essere trattato come un bambino normale, normato e in altre parole come bambino – oggetto, ma di essere trattato come un bambino particolare, che sente che la madre, la persona che si occupa di lui, si interessa in modo particolare a lui. Questo significa che anche lei desidera qualcosa dal suo bambino, cerca di capirlo, s’interroga quando il bambino piange perché piange, quando piange in un certo modo perché piange così. Comincia lei a dare significati diversi: per esempio quando piagnucola, questo potrebbe significare per lei che ha fame, e se piange di più vuol dire che è bagnato. All’inizio il bambino non sa che cosa succede, ma che cosa fa la madre? Dà una risposta al bambino al suo urlo e attraverso la risposta il bambino può cominciare a differenziare, a capire che se piagnucola per esempio, la madre gli dà il seno, ma se piange in modo disperato la madre risponde invece in un altro modo ed il bambino comincia a differenziare tutto ciò a livello significante. Significa che c’è un segno e c’è una risposta dell’altro che retroattivamente per il bambino prende un certo significato. Il bambino attraverso le risposte materne entra nel mondo simbolico dove un certo gesto o un certo segno prende un certo significato. E quando questa coppia segno – significato, significato che dà la madre a questo segno, si ripete, si mette in serie, diventa serie anche per il bambino. Attraverso questa ripetizione il bambino impara le prime concatenazioni di tipo causa – effetto che sono alla base di ogni struttura linguistica.
A quest’età la questione più importante per il bebè è da che cosa dipende la presenza o l’assenza della madre, le sue condizioni che causano questo andirivieni, poiché tutto va a buon fine o no, tutto si gioca nel riuscire o no ad attirare l’attenzione di questa persona. Infatti, quello che interessa al bambino è d’essere garantito perché è in una condizione in cui è del tutto sprovvisto dall’essere autonomo. Tutto si gioca attraverso la questione della presenza della madre. Sigmund Freud, osservava la sua nipotina di due anni durante il gioco del rocchetto, cioè il gioco della presenza – assenza, nel quale il rocchetto stesso simboleggerebbe la madre con i suoi movimenti di presenza – assenza. E’ un gioco che rispecchia la problematica della questione di che cosa può fare il bambino per attirare l’attenzione della mamma, perché sia presente. La presenza ha per il bambino il marchio di felicità, quando la madre torna ride, mentre quando si sente lasciato solo comincia a piangere. L’assenza è marchiata da una sofferenza e per questo il bambino cerca delle soluzioni affinché questa sofferenza non ci sia più, che l’abbandono cessi e la madre torni.
In queste situazioni il bambino scopre che certi gesti fanno tornare la madre mentre altri no e successivamente scopre delle “esche” che attirano più o meno fortemente l’attenzione della madre. Vede per esempio che quando piange forte la madre arriva di corsa mentre quando fa altre cose non è detto che arrivi. Questi sono i primi passi per entrare in un rapporto con l’Altro.
Qui non sono più in questione il nutrimento e i bisogni primari, ma è in questione la condizione per soddisfarli. La condizione è essere amato dalla madre.
Ma la questione si complica ancora di più, perché se la madre fosse veramente contenta di come il bambino è, e non desidera altro, il bambino sarebbe completamente alienato al desiderio materno e questo significherebbe che dovrebbe sempre fare tutto ciò che la madre vuole, perché soltanto questo gli garantirebbe l’amore materno. Questo significherebbe che il bambino rimarrebbe sempre in una posizione d’oggetto. Solo successivamente il bambino capisce che la madre non lo ama per quello che è ma per quello che promette in futuro. Questo significa di non essere tutto per la madre per quello che è, ma potrebbe diventarlo se riesce a mantenere le promesse. Il bambino sente che alla madre manca qualcosa e questa mancanza dà al bambino un posto a livello simbolico, il bambino cerca di dare ciò che manca alla madre per essere tutto per lei. Questa mancanza materna indirizza il desiderio del bambino, gli dà un indirizzo, funge da bussola, e che fa dire al bambino: “Non sono ancora tutto questo, ma in futuro potrò diventare tutto ciò che la madre desidera”. Questa mancanza di non essere tutto per la madre, fa nascere il desiderio nel bambino d’esser tutto per lei, ma di non esserlo ancora. E così si può vedere come si mette in moto il desiderio nel bambino quando cerca di capire che cosa l’Altro materno desideri al di là di lui.
Come si può vedere allora, c’è da una parte una mancanza nel bambino che ha bisogno d’essere aiutato da parte dell’Altro materno, ma altrettanto per essere valorizzato deve avere valore per la madre. Che cosa se ne farebbe altrimenti la madre d’un bambino che non vale nulla per lei? Quindi il bambino dev’essere valorizzato dalla madre ma non deve essere per lei tutto quello che è, ma può diventarlo in futuro. Questo dire materno: “ va bene figliolo mio, tu prometti bene“ dà al bambino una certa tranquillità sapendo che non c’è fretta nel fare ciò che i genitori desiderano. Ma il loro desiderio indica un cammino, indirizza il bambino. Ma gli fa altrettanto capire se viene lodato dai genitori quando ha tre anni, non è per niente sicuro che vada loro bene quando fa le stesse cose a sette anni. Il bambino sente che c’è un cammino che promette di farlo essere quel tutto per la madre, che dopo, almeno ci si auspica, non raggiungerà, cosa che gli faciliterà da grande di lasciare i propri genitori e da uomo di cercare una donna. Così il desiderio si metterà di nuovo in cammino visto che lì ci saranno senz’altro dei problemi che tengono aperta la faglia del desiderio.
Dove si pone invece il problema nella psicosi? Una volta si diceva che i bambini sono psicotici per un problema del troppo o del troppo poco. Normalmente si dice che una madre è troppo presente, è troppo pressante, o una madre è troppo assente, non si occupa del bambino, o un padre è troppo violento, o troppo buono che non impone delle regole. Le cause della psicosi infantile si cercavano inizialmente nell’ordine del più e del meno, troppo buono o troppo poco buono, troppo violento o troppo poco violento. Ma queste spiegazioni hanno un difetto; sono tutte spiegazioni che si danno retroattivamente.
La questione dovrebbe essere invece posta nel seguente modo: come mai un bambino soffre con un delirio, un altro bambino invece produce mal di pancia, sintomi psicosomatici o un altro sintomi nevrotici? La questione allora del più e del meno non spiega per niente la causalità del perché un bambino è affetto da una psicosi. Qui Lacan è molto preciso quando dice: il problema non è un problema a livello immaginario del troppo, troppo poco, del dare troppo amore, troppo poco amore, ma la questione è a livello simbolico e cioè – dice – il bambino ha un problema in quel campo lì.
Che cosa succede nella psicosi? Come dicevo prima tutti i bambini cominciano, prima di dare un significato al parlare, ad usare il linguaggio a livello di puro godimento, di gioco con sillabe e parole e questo godimento rimane anche per noi, detti normali, presente. Questo si vede per esempio quando i bambini usano le filastrocche e si divertono tantissimo ad usarle. Ma si può vedere anche nel piacere che ci dà l’ascoltare una poesia, dove non è soltanto importante il contenuto, il significato, cioè il senso di quello che si dice, ma c’è anche un particolare piacere a livello formale, per come cioè si dicono le cose e la musicalità inerente che si produce leggendole ad alta voce. Questo piacere legato al ritmo, alla sua musicalità al di là del senso è già presente nel bambino piccolissimo. Egli trova piacere nei borbottii, nelle ecolalie, eccetera.
Quello che manca nel bambino psicotico non è questo lato di piacere all’interno del simbolico, per questo Lacan dice che i bambini sono nel campo del linguaggio, ma non c’è questa prima separazione tra mondo esterno e mondo interno ad un’età in cui dovrebbe normalmente accadere. La maggior parte degli psicoanalisti presumeva che questa separazione dovrebbe avvenire prima di un anno e mezzo di età. Quando il bambino psicotico entra nel campo del linguaggio prende le parole dall’altro che si confondono col proprio essere, per es. quando prende le parole o spezzoni di frasi dalla pubblicità, da canzoni o da programmi televisivi.
C’è un bambino che spesso parla di cose di un programma televisivo che si chiama Blob e lui usa sempre frasi con grande piacere ma quando parla, normalmente si gira con la schiena davanti a me, guarda fuori della finestra e cita frasi del tipo: “Tu fai il dopo gioco Massimo.”, “Stai tranquillo Fausto” etc., parla di quelle cose con grande piacere, ma comunque ogni volta ripete queste frasi, ma mai si capisce chi parla e a chi si indirizzano queste parole; è questo il problema principale. Quando invece c’è una divisione tra il soggetto e suo Altro, che cosa succede nel bambino? Sa che il linguaggio non è puro piacere ma diventa lo strumento principale per domandare, domandare all’Altro di essere riconosciuto ed essere amato perché questo lo garantisce.
Il bambino psicotico usa invece il linguaggio e va avanti così a lungo – spesso si dice che i bambini psicotici da piccoli sono dei bambini molto buoni – con questo modo di utilizzare il linguaggio dove le parole vengono prese dall’Altro e si ripetano in modo ecolalico. Mi viene in mente un bambina a cui piacciono tante canzoni tipo ‘Marina Marina’, le piacciono le canzoni d’amore, per questo dice ogni tanto frasi del tipo: “ tu sei l’unico al mondo” e quando le ho chiesto: ”E tu dove sei?” lei mi rispondeva: “Io non ci sono”.
Questa confusione tra l ‘ io e l’Altro si vede molto chiaramente quando questi bambini ad una certa età cominciano a parlare: per esempio succede quando saluto un bambino con: “Ciao Marco!” lui mi risponde: “Ciao Marco”. Questo si potrebbe definire ecolalia visto che dice la stessa cosa che ho detto prima io. Ma la cosa diventa ancora più interessante quando per esempio gli chiedo alla fine della seduta: “Chi chiama la mamma? La chiami tu?” Lui risponde con un: “Sì” e dopo aspetta lui, ed aspetto io. Perché gli ho chiesto: “Chiami tu?” e lui ha risposto: “Sì!” cioè significa per lui: “Chiami tu!” Il “tu” rimane per lui “tu” e non si inverte per lui in: “io”. Perché questo implica non soltanto il detto, ma implica soprattutto da quale luogo, da quale persona viene questa parola. E qui si può vedere in modo esemplare il problema principale che ha questo bambino psicotico. Lui non inverte l’io in tu e viceversa, e qui si capisce cosa succede quando non c’è questa separazione tra io e l’altro, tra mondo esterno e mondo interno. Quando si parla nella psicosi di rapporto fusionale o di fusione in generale, questo non significa che c’è fusione dei corpi, non c’è fusione nel reale, ma non c’è separazione a livello simbolico. Questo si vede molto chiaramente nel esempio di un bambino che è venuto in seduta da me con suo orsacchiotto di peluche. Lui mi ha detto entrando: “quello lì è mio!” E gli rispondevo, visto che gli piacevano molto i giochi d’alternanza: “No, è mio!” E lui: “No, no, è mio!” Siamo andati avanti per un bel po’ con questo gioco e lui si divertiva molto. Fin qui si potrebbe dire che mi aveva risposto adeguatamente. Alla fine dicevo, fingendo di cedere: “va bene, è tuo!” E lui mi rispondeva: “sì, è tuo!“ e quando gli dicevo allora: “ah, allora è mio!” mi rispondeva immediatamente: “no, è mio!” E dicendogli di nuovo: “allora, è tuo!” ripeteva: “no, è tuo!”. Qui si vede il dramma di questa non – divisione tra il soggetto e il suo Altro e che cosa succede quando non c’è questa separazione a livello simbolico.
Spesso sono bambini che al di là di questo disturbo nel simbolico sono intelligenti e perciò cercano delle soluzioni per venirne fuori. Questo bambino per esempio, quando gli chiedo alla fine della seduta: “Chi apre la porta? La apri tu?” lui mi risponde con: “Sì!” ed io aspetto e anche lui. E quando gli chiedo di nuovo: “Apri la porta?” e lui dice di nuovo “sì!” e niente succede. E quando insisto con un: “Ma allora chi apre questa porta?’ mi risponde con: “il dottore”. Con questo modo di definire in terza persona, può dirmi a chi si rivolge la domanda evitando questo “tu” che per lui nel luogo dell’altro non si inverte in “io”. Questo non vuol dire che ciò rimanga così per tutta la vita. Ci sono bambini psicotici che sembra che apprendano ad un certo punto meccanicamente questo meccanismo ma comunque sembra che per loro questa inversione pronominale non abbia niente a che fare con il soggetto stesso che dovrebbe rappresentare quel significante “io”.
Ma il problema si pone comunque all’inizio quando il bambino perviene al linguaggio: o il bambino entra nella strada dove la parola rimane lì come gioco combinatorio di parole e tutto resta lì, o la parola che dice lo riguarda, lo rappresenta, e questa parola è vettorizzata, si indirizza a qualcuno; questo implica una prima divisione tra un luogo “io” e un luogo “altro”. Se questo non accade, come succede nella psicosi, il linguaggio non ha più lo stesso significato per il bambino e per questo è molto importante, quando parliamo della diagnosi differenziale, di aver ben chiaro che soggetto abbiamo di fronte. Nel caso di un bambino nevrotico si deve stare attenti che in questo bambino si metta in gioco il desiderio, che dia una risposta alla sua domanda: “che cosa ci faccio qui nel mondo?”. Se invece si cerca di spingere un bambino psicotico in questa direzione, di provocare che lui si svegli un po’, molto facilmente si sente sotto pressione e percepisce questo Altro come pericoloso e persecutorio.
Si può fare un esempio: un bambino calcia un pallone su un prato verde e si diverte molto. Questo campo comunque non ha alcuna connotazione che concerne le regole del calcio; per lui questo campo non è niente altro che un prato verde. Se questo bambino viene inserito in una squadra di calcio e non capisce le connotazioni delle regole, che cosa succede? Gli altri bambini che vogliono vincere spingono che lui si comporti in modo adeguato per vincere la partita. Ma lui che non capisce le regole del gioco, come può sentire questa pressione che viene fatta su di lui? Non la può interpretare che in modo persecutorio; gli altri lo sgridano, diventano per lui pericolosi perché non capisce che cosa vogliono da lui.
Si potrebbe dire che lo stesso succede col bambino psicotico nel linguaggio: lancia fuori delle parole perché gli piace farlo, come fa col pallone. Questo significa che c’è un piacere nel borbottare, nel dire pezzi di frasi ecc., ma le parole non hanno funzione di rappresentarlo, non si indirizzano a qualcuno, non prendono un valore di domanda. Il bambino psicotico non domanda d’essere riconosciuto e amato dall’Altro, anzi, quando sente che c’è una forte pressione dalla persona che gli vuole bene e lo ama, facilmente cerca di svincolarsi dalla presa di questo Altro e se questo non basta passa facilmente ad atti aggressivi ed autoaggressivi.
Faccio un esempio di un bambino che è molto grave, che per anni parlava quasi esclusivamente di lavatrici; disegnava lavatrici e più avanti cominciava a conoscere tutte le marche di lavatrici, s’interessava di cataloghi di lavatrici, conosceva che tipo di lavatrice di tutti gli operatori avevano a casa. In questo modo, si potrebbe dire, ha fatto un ordinamento del mondo attraverso le lavatrici. Così il mondo è diventato un po’ meno pericoloso. Da piccolo era molto attirato e nello stesso momento angosciato dalla lavatrice. Stava davanti a questo elettrodomestico per ore ed ore guardando come girava, a destra, a sinistra, a destra, ecc. Ma nel momento in cui cominciava la centrifuga si agitava tantissimo e gridava d’angoscia. Questo ordinamento del mondo, cioè che tutti hanno una lavatrice ma spesso di marca diversa, gli ha dato un po’ di pace. Salutava un operatore con: “San Giorgio!” invece di dire il nome e qualche volta diventava ironico dicendo apposta la marca sbagliata e ridendo molto di questo “scherzetto”. Questo era la sua modalità di addomesticare questo significante lavatrice.
Questo bambino a 12 anni, che non si era mai interessato alla lettura, prendeva un giornale e leggeva una parola. Mi sono chiesto come fosse possibile che sapesse leggere, nessuno gliel’aveva mai insegnato! Più avanti guardando l’elenco telefonico leggeva: “Philips”, e cominciava a leggere tutti i nomi di marche di lavatrici ed elettrodomestici. Così ho scoperto che lui sapeva leggere, in modo probabilmente globale, perché anche le scritte sono abbastanza particolareggiate, ma comunque non si sbagliava mai.
Vorrei parlarvi di un altro bambino autistico, Andreas, che ho conosciuto a Berlino. Andreas è stato messo in una terapia di gruppo per bambini. Questo gruppo si incontrava una volta alla settimana con tutti i bambini del reparto. Tutti potevano dire in quella seduta delle cose che gli interessavano. Quando Andreas è stato inserito per la prima volta si sedeva sotto il tavolo – era un bambino che non aveva mai detto una parola – ma quando la psicologa lo presentava al gruppo dicendo d’essere molto contenta perché anche lui sarebbe stato presente, le ha risposto a voce alta e con tono secco “No!”. Questa è stata l’unica parola detta nei tre anni successivi; ma in quel momento le ha detto molto chiaramente: “no, non sono presente”.
Come ha successivamente cominciato a parlare Andreas? Non ha cominciato a parlare con i terapisti, i medici, gli psicologi, le logopediste. Ha cominciato a parlare con nostra sorpresa, con un’infermiera coreana. Quest’infermiera, piccolina, magrolina, gentile con i bambini, lavorava di notte e quando portava i bambini a letto diceva loro: “pss, pss,” per far capire di smettere di chiacchierare e di dormire. Questo vuol dire che ha fatto capire di non volere niente, che tutto va bene, che non succede niente di brutto. E Andreas ha cominciato a parlare proprio con quest’infermiera che non parlava neanche tanto bene il tedesco! Cominciava a parlare con piccole frasi, chiedendole di portargli qualcosa da bere, di volersi alzare di nuovo per andare in bagno ecc.. Con tutti gli altri ha cominciato a parlare molto più tardi. Questo episodio ci dà un’idea di quali siano le condizioni che ci vorrebbero per questi bambini che, quando non sono sotto pressione, possono avere la possibilità d’aprirsi, e che invece si chiudono molto facilmente quando si esige fortemente qualcosa da loro.
Che cosa significa questo per il nostro lavoro? Che cosa esige il bambino psicotico? Esige d’essere al riparo dall’Altro persecutore; vuol dire che non necessita di un altro che spinge e che cerca di manipolarli, ma uno con cui possa trovare una pacificazione. Questa pacificazione si può verificare perché tutti i meccanismi di difesa si attenuano: non cerca più di controllare l’altro in modo così estenuante o d’imbrigliare l’angoscia con dei meccanismi di controllo dell’ambiente, con meccanismi di ripetizione e stereotipie.
Si sa che il ritmo ha un effetto tranquillizzante; questo si può verificare con i bebè quando vengono messi sul dondolo. Si nota anche che la ripetizione ha un effetto tranquillizzante: quando per esempio si raccontano ai bambini piccoli delle fiabe, loro accettano volentieri che si racconti anche delle cose molto atroci – essere mangiati è il minimo che può succedere nelle fiabe – ma a una condizione: che tutte le parole rimangano uguali quando si racconta loro per innumerevoli volte queste storie atroci, tutto deve rimanere prevedibile e la prevedibilità toglie l’angoscia.
Posso fare anche un altro esempio: quando i bambini si sentono angosciati per il temporale, che cosa si dice loro? Quando tra lampo e tuono l’intervallo diminuisce, il temporale si avvicina, quando quest’intervallo aumenta, il temporale si allontana. Di primo acchito non è così chiaro come mai questo sapere abbia l’effetto di togliere l’angoscia. Ma in fondo è un sapere che dice che anche il temporale non può fare quello che vuole, anche il temporale è prevedibile, risponde a delle regole. Ed è esattamente questa prevedibilità, che ha l’effetto disangosciante.
Osservando dei bambini psicotici, si ha spesso la percezione che sono in tensione e in ansia. Spesso camminano sulle punte e soltanto quando si rilassano un po’ cominciano a camminare normalmente. Sono in una situazione di allerta, di tensione continua, ed il primo problema è come dare l’idea che si possano sentire al sicuro, che non succede nulla di brutto e che si sentano garantiti dalla persona che è presente. Soltanto questa sicurezza permette loro di aprirsi verso nuove conoscenze e non di cercare di controllare le proprie ansie con delle attività ridondanti e ripetitive.
Un esempio chiaro si ha con i bambini psicotici quando sono inseriti a scuola. Cosa succede? Quando tutti i bambini sono seduti e gli insegnanti insegnano, stanno bene e diventano un po’ birichini: amano alzarsi dal banco e saltellare in classe. Quando invece c’è l’intervallo e tutti i bambini cominciano a schizzare fuori, i bambini psicotici che cosa fanno? Sono in preda all’angoscia e spesso si aggrappano all’adulto perché non sanno più che cosa fare. Nel momento in cui tutto è regolato le cose vanno bene, nel momento in cui il mondo intorno per loro è sregolato, vanno in angoscia.
Come allora può il bambino psicotico crearsi un sapere, anche se è differente da quello dei bambini normali che cercano un sapere soprattutto per farsi riconoscere dall’Altro? Le madri spesso chiedono che il bambino sia bravo perché, si sa, un bambino che rende di più di un altro prende valore fallico – la madre dice: “il mio bambino ha qualcosa in più da dimostrare, è un bambino che vale”- mentre per un bambino psicotico la questione del valore è poco importante. Per farvi un esempio: è venuto un ragazzo psicotico a raccontarmi con grande gioia d’aver fatto una bellissima partita di calcio, dicendomi alla fine che hanno perso 10 a 0. Il problema è proprio qui: il ragazzo, invece d’essere disperato per aver perso in modo così pesante, ci fa capire che gli importa poco perché per lui era solo importante giocare a pallone. All’Antenna 112 c’era allora un operatore molto sportivo. Ma quando giocava a calcio con questo ragazzo era un disastro: cercava d’insegnare al ragazzino un pochino come muoversi in campo- e questo ragazzino non sopportava minimamente questa situazione. Quando invece abbiamo messo in panchina l’operatore, il ragazzo cominciava ad insegnare all’operatore come si gioca a calcio ed era felicissimo di sentirsi sostenuto con: “ma che bravo! Ma come hai fatto?” L’educatore dimostrava così di non sapere. E il non sapere dell’educatore ha avuto l’effetto che il ragazzo si aprisse e cominciasse di nuovo ad essere pacifico.
Come si può lavorare con il bambino dove i mezzi educativi normali non funzionano?
L’educazione va, per dare un’idea molto semplificata, nella direzione di un più o di un meno; va nella direzione del più, della promessa, della seduzione, dell’ordine di: “se tu mi dai qualcosa, ti faccio qualcosa in cambio”, o va nella direzione del meno, cioè nella direzione della minaccia di punizione, nel senso di: “se tu non fai certe cose ti tolgo qualcosa, ti punisco.” Si potrebbe obiettare che c’è anche la modalità della spiegazione. Ma la spiegazione in fondo non è altro che una modalità più raffinata della seduzione, perché comunque alla fine, quando si spiega, si fa questa cosa per attirare il bambino sulle proprie orme: “vorrei che tu alla fine faccia ciò che io desidero.” Il bambino normale reagisce molto bene alla promessa quando la madre dice: “seguimi per farmi felice e ti compro la macchinetta” In questo caso il bambino riceve qualcosa che rappresenta l’amore della mamma, del papà, o se viene punito, viene introdotta una sofferenza.
Cosa si può fare col bambino psicotico? Come si può vedere spesso il bambino psicotico non risponde alle gratificazioni perché, si potrebbe dire, la questione fallica, cioè di essere valorizzato, gli interessa relativamente. Anzi, quando è troppo valorizzato spesso chiude verso l’Altro e dall’altra parte è un bambino che sfugge anche alla minaccia, visto che spesso anticipa addirittura con atti autoaggressivi. Per questo si può dire che gli strumenti della educazione normale non funzionano.
Questo apre una serie di questioni: nel bollettino di neuropsichiatria infantile per esempio, sono state pubblicate le nove leggi della regione Lombardia per cui nelle strutture pubbliche per adolescenti gravemente disturbati e per strutture terapeutiche di bambini psicotici le uniche figure professionali previste sono educatori e non psicologi o medici. Tutta la struttura dovrebbe essere retta da educatori, cosa che va esattamente contro la legge Ossicini. Questa legge autorizza alla terapia della psiche solo i medici e psicologi e dall’altra la nuova legge autorizza solo gli educatori di occuparsi del bambino. Ma il problema del bambino è un problema di ordine educativo? O detto in modo ancora più netto: i bambini psicotici sono dei maleducati che devono essere rieducati? O, visto che il bambino psicotico prende l’Altro ostile come persecutorio, chi è da educare, il bambino psicotico o l’Altro persecutore?
Sembra un po’ strano. Ma vi faccio un esempio. Ho avuto in cura una ragazza, tempo fa, e recentemente mi ha richiamato perché stava di nuovo molto male: si isolava sempre di più e non usciva più di casa. Cosi mi ha chiamato, nonostante adesso sia maggiorenne, dicendomi che è disperata. La questione della sua disperazione era che non usciva più di casa perché le è successa una cosa strana: ogni volta che usciva, era perseguitata da una macchina bianca e per questo non si sentiva di uscire. Si è rivolta ad una psichiatra e questa le ha detto di non farci caso. Ma questa risposta l’ha fatto disperare ancora di più perché, così mi diceva: “ma io non ci faccio caso a questa macchina, ma questa macchina non mi lascia in pace.” Allora qui si potrebbe dire, con Karl Jaspers che ha puntato molto sulla comprensione della follia, si capisce benissimo che questa ragazza, che era completamente isolata, ha trovato un riempimento del suo ‘teatrino personale’ con questa macchina che la perseguita. Da quando c’è questa macchina lei non è più sola, anzi deve sempre difendersi, c’è sempre qualcuno che vuole qualcosa da lei e in qualche modo è anche una risposta ad una situazione di completa solitudine.
L’ipotesi, che il delirio risponde alla sua solitudine, può essere anche vero. Ma comunque tutte le persone che le rispondevano di non farci il caso o che mettevano in discussione la veridicità del suo delirio, le ha scartate immediatamente come interlocutori dicendo che: “quelli non mi capiscono.” Il problema infatti è di capire chi deve essere curato nella psicosi: lo psicotico o l’Altro persecutore, perché quello che fa problema allo psicotico non è il detto: “tu sei psicotico” ma quell’Altro che da loro viene percepito come persecutore.
Per ritornare alla questione dell’educazione: chi si deve educare quando il soggetto è preso in uno stato delirante? Ha senso intervenire con un’educazione di stile soft? Che cosa si può fare con un bambino che non risponde né alle promesse né alle minacce di punizione, se non con degli agiti spesso estremamente aggressivi e autoaggressivi?
Che tipo di lavoro si cerca di fare con i bambini psicotici e autistici all’Antenna 112? Per noi la questione principale è di trovare delle modalità che abbiano l’effetto che questi bambini siano pacificati perché, finché non sono pacifici, tutto il loro investimento va nella direzione della ripetizione, della ripetizione ecolalica, delle stereotipie, etc. Questo vuol dire che loro investono tutto il tempo nella ripetizione, ripetizione di giochi, di parole, cercano di ritmare il tempo battendo di continuo cucchiai o altri oggetti o riempiono in altri modi il tempo. Per questo si dice che i bambini psicotici sono già al lavoro, giorno e notte, sono continuamente in attività, continuamente in movimento, visto che ciò che fanno è un tentativo di imbrigliare questa tensione continua che non sanno altrimenti contenere. La ripetizione ha effetto tranquillizzante ma produce anche un effetto indesiderato: un bambino che ripesca continuamente nella ripetizione fa sempre le stesse cose per difendersi dall’angoscia sempre in agguato. E la conseguenza è che la ripetizione impedisce al bambino di evolvere e non apprende perché l’apprendimento implica una posizione d’ascolto, invece di essere preso di continuo con le proprie sensazioni corporee angoscianti. Da qui risulta che il primo problema da risolvere è come creare un ambiente rassicurante che abbia un effetto pacificante per il bambino psicotico, che gli dia la possibilità di passare dall’agito continuo al pensare come funzione a questo mondo circostante. Quando il bambino psicotico è tranquillo è quasi sempre molto curioso, ha bisogno d’apprendere, deve capire il mondo a modo suo, perché più lo capisce meno è angosciante. Finché invece non capiscono il mondo tutto sarà caotico, pericoloso e persecutorio. Che cosa si può fare allora affinché un bambino possa fare una ricostruzione o, come nel caso di autismo, una costruzione del mondo che non diventi troppo persecutoria?
Come si può addomesticare l’angoscia con un sapere visto che i bambini psicotici non imparano per far fare bella figura nei confronti dell’altro, non si mettono al lavoro per acquistare maggior valore fallico per l’altro, ma imparano per aver meno angoscia, per conoscere meglio la situazione, per trovare una modalità di sentirsi al sicuro.
Per esempio c’è un bambino psicotico che è in cura da mia moglie, è un bambino molto intelligente e quando usa il computer alla fine, dopo aver scritto qualcosa, il computer chiede: “salvare le modifiche?”- lui dice: “Salviamoci dai nemici”. Alla fine dice sempre questa frase “salviamoci dai nemici” e schiaccia il tasto così la cosa scritta non sparisce nel nulla ma viene conservata. Gli piace anche moltissimo buttare le cose nel “cestino”, si può cliccare su “esci”, e lui legge ridendo: “eschi!” Si può fare ok e lui legge “O Kappa”. Lui lavora con questo computer ed è interessato soprattutto alla scrittura. Infatti spesso i bambini psicotici sono più attratti dal simbolico, dalla scrittura, quando sono pacifici, che dall’immagine. Usano per esempio il cerchio prima come significante, cioè come lettera O, invece di avvicinarsi all’immagine di una palla, del sole o come prima rappresentazione del corpo umano.
Ci sono dei bambini all’Antenna 112 che scrivono pagine e pagine di parole per mettere ordine nel mondo, per esempio la data. Da noi era necessario per tranquillizzare un bambino fare un calendario dove ogni giorno lui scrive: “oggi è il 20 marzo” e dopo dice: “domani è il 21 marzo 2001” e scrive vicino alla data il suo nome. Ma ha fatto anche altre costruzioni per mettere ordine nella consecutio temporum: per esempio all’Antenna aveva cinque spazzolini, uno per ogni giorno che sta da noi. Si vede molto spesso che per questi bambini è necessario cercare un ordine nella realtà visibile quando manca un ordine a livello simbolico. E’ da notare che i bambini psicotici che ho conosciuto finora hanno molto più spesso problemi a livello temporale che a livello spaziale.
Per esempio è successo che un ragazzo che è arrivato di domenica sera, lunedì mattina faceva la valigia e quando l’operatore gli ha chiesto: “Ma che cosa stai facendo?” lui rispondeva: “Oggi è venerdì, vado a casa” e quando l’operatore gli ha detto: “Ma no, oggi è lunedì,” rispondeva in modo molto agitato: “Tu mi prendi in giro” e cominciava da aggredire l’operatore. Allora che cosa si è fatto con questo bambino? In futuro, quando si vedeva che lui aveva questa enorme confusione temporale, si è pensato di dire: “Adesso io non so che cosa succede. Tu dici che è venerdì. Guardiamo il calendario. Dici che ieri era – domenica – allora vediamo che cosa è scritto qui: C’è scritto lunedì”. Lui, che sapeva leggere, controllava quello che era scritto, e si è immediatamente tranquillizzato e ha messo via la valigia. Non era la questione di andare a casa dalla mamma per nostalgia, ma si trattava proprio di una confusione nel tempo. Questo si vede spesso anche in altri bambini che non sanno che cosa è il prima e che cosa il dopo e questo procura loro una confusione enorme. Si può intuire quanto è perturbante una confusione sulla linea temporale, quando non si sa che cosa è successo appena adesso o qualche anno fa, ma soprattutto mette il bambino in enorme difficoltà per tutto quello che concerne la prevedibilità di quello succede in un futuro prossimo, visto che, come già spiegato prima, la prevedibilità degli eventi toglie loro la sfaccettatura angosciante. Tutto quello che è prevedibile, controllabile, come per esempio una cosa scritta, da sicurezza e per questo noi all’Antenna 112 scriviamo tutti giorni su una lavagna il programma dei vari atelier che sono programmati per tutti i bambini. E’ scritto il nome del bambino ed il nome dell’operatore e tutti i bambini possono vedere già con chi lavoreranno adesso e dopo e se c’è qualche dubbio si controlla con i bambini ciò che è scritto. Succede per esempio che Nicola, quando io alle 17.30 sono ancora all’Antenna – normalmente vado via alle ore 17.00 -, mi chiede: “Martin, che cosa ci fai ancora qui? Non dovresti essere già a casa?” Allora ogni volta gli rispondo: “Scusami! Ho ancora da fare. Ma tra poco vado via” e lui è contento perché in qualche modo vede che tutto è al suo posto. E’ interessante inoltre vedere quanto facilmente una persona che sa, diventa per il soggetto psicotico persecutoria. Quando il sapere invece sta in un luogo terzo, per esempio quando è scritto da qualche parte, sulla bacheca, nel dizionario ecc., quando il sapere è scisso dall’Altro, come nel caso sopra descritto, non ha quest’effetto angosciante.
Vorrei dire adesso alcune cose su come si lavora all’Antenna 112 e perché si è fatta la scelta di lavorare “à plusieurs”. In Europa esistono – per dirlo in un modo un po’ schematico – due tipi di strutture che si orientano secondo la teoria psicoanalitica nel lavoro con i bambini psicotici: una struttura è fatta nel senso che ci sono gli psicoanalisti che fanno terapia individuale due o tre ore alla settimana come lavorano anche nei loro studi privati e per il resto delle ore ci sono gli educatori. Questo assetto ha spesso l’effetto che gli educatori si sentano un po’ sminuiti, come dire, fanno il lavoro della “sala d’attesa” mentre le cose importanti accadono nel momento della terapia. L’altro assetto organizzativo invece consiste che tutta la struttura è in un certo modo considerata terapeutico. Il lavoro dell’analista consiste in primo luogo nel sostenere tutti operatori, nel caso dell’Antenna 112 tutti gli operatori sono laureati in psicologia. Gli operatori sono sostenuti nel loro lavoro quotidiano per cogliere i momenti “produttivi” dei bambini affidati loro, visto che noi abbiamo scoperto che le cose che i bambini dicono d’importante spesso non vengono fuori quando ce lo aspettiamo, anzi quando ci si aspetta qualcosa da loro, ma difficilmente rispondono a queste aspettative e si chiudono verso di noi, perché percepiscono queste aspettative come pressione su di loro. E più uno preme, più succede che il bambino si chiude.
Ricordo una bambina che prima di venire all’Antenna 112 è stata seguita da uno psicoterapeuta a cui diceva spesso: “voglio uscire dalla stanza” e lo psicoterapeuta diceva: “No, perché il tempo non è ancora scaduto”. E quando lei ribadiva: “Ma io voglio andare fuori, non voglio più stare qui dentro” lui aveva spostato il divano davanti alla porta per non farla uscire. E tutta la discussione in queste sedute è andata avanti per molto tempo, la ragazzina diceva: “Io non voglio stare qua” e lui rispondeva che: “Il tempo non è scaduto”. In fondo si potrebbe dire che l’artificio della terapia, cioè il setting di 50 minuti, è diventato il contenuto della terapia stessa. Quando è arrivata da noi ci raccontava di questo dottore in modo un po’ umoristico: ”Il mio dottore è come un orologio svizzero. ” Gli voleva bene e lo conosceva da tanto tempo, non era persecutore per lei, ma non sapeva cosa farsene di questa terapia e cominciava a stare sempre peggio. Per questo dopo è arrivata da noi.
Il setting terapeutico, anche all’interno di un’istituzione, deve essere sempre adeguato alla patologia che si deve affrontare. Quando si vede che non succede quello che dovrebbe accadere, le cose importanti non vengono fuori quando la persona detta importante è presente, ma le cose vengono dette in momenti particolari, per esempio durante il ritorno a casa, quando l’operatore è occupato nel guidare la macchina come è successo più volte, dove un bambino improvvisamente diceva all’operatrice: “ma tu, a tuo marito baci il pisello?”, così, dal nulla, mentre lei guidava la macchina. Insomma, vengono fuori delle questioni che da tempo occupavano il bambino ma non le esprimeva mai prima e spesso vengono fuori in momenti del tutto inaspettato. Quando c’è l’occasione di dirlo, per esempio nell’atelier della parola, poche volte parlano dei loro problemi più pressanti.
In quest’esempio appena citato si può vedere un’altra caratteristica che si trova nei bambini psicotici: non hanno pudore, manca quello, che noi diciamo nel chargon psicoanalitico, non hanno il velo davanti al fallo, o, detto in altre parole, il fallo che è precluso nella psicosi a livello simbolico appare nel reale.
Anche i loro agiti a volte ci spiazzano perché non hanno vergogna per certe cose; così un bambino che doveva fare la pipì, la voleva fare verso la vetrina della farmacia dove compriamo di solito i farmaci. Un altro bambino cercava di leccare il gelato caduto per terra e in stato di scioglimento. Altre volte cercava di mangiare la frutta marcia del giardino.
Tutte queste cose qui danno la percezione che ci sia qualcosa che è senza limite all’interno del bambino psicotico e a cui si deve dare un limite. Ma c’è il problema che, quando una persona dà un limite, diventa facilmente persecutoria. L’impasse che dobbiamo affrontare è proprio questa: come si può essere da una parte garanti, che non succeda niente di brutto, e dall’altra, visto che questi bambini devono socializzare, cioè devono imparare delle regole, come far loro rispettare delle regole senza che il rapporto diventa problematico? Per questo facciamo l’operazione che uno, l’operatore, fa da garante al bambino psicotico ed altre persone – per esempio il direttore amministrativo del Buon Pastore o qualcuno, se è meno presente è meglio- che detta le regole con l’effetto che ciò che rappresenta la legge è quello che in primis sottostà a queste regole e che cerca di introdurrle anche nel bambino psicotico. Questa persona è nettamente distinta per evitare che l’operatore non sia identificato con il legislatore persecutorio. Per esempio quando un bambino dice: “Io voglio questo” gli operatori lo sostengono nella sua domanda dicendo per esempio: “Ah, che bella quest’idea. Scriviamo subito una lettera al direttore per chiedergli se è possibile comprare questa cosa qui.” In questo modo si dice: “Sì” al bambino ma si dice nello stesso momento che c’è un limite, ma il limite non rappresenta l’operatore, ma fa capire al bambino che anche l’operatore sottostà ad un limite, poiché non sarà lui a decidere. Chi decide sarà un terzo e questo ha l’effetto di uscire da una situazione speculare, duale, che molto velocemente può degradare in una situazione di duello. Con questa manovra si scinde il piano di colui che fa da garante da quello che impone la legge. In fondo questa mi sembra una delle operazioni più importanti, perché se noi imponiamo delle leggi ai bambini, loro molto facilmente hanno la percezione che diventino un nostro zimbello, che noi ci divertiamo a trattarli male.
Quando invece i bambini vedono che le regole valgono non solo per loro ma anche per tutti gli operatori, ciò dà loro una certa tranquillità. Per esempio quando tutti i bambini mangiano volentieri, anche i bambini che inizialmente non hanno voluto mangiare si mettono lentamente a farlo.
E’ importante che i bambini all’Antenna 112 stiano bene. Ma è altrettanto importante che il papà e la mamma si sentano tranquilli. I genitori dei nostri bambini hanno spesso molti problemi: su nove dei bambini che ospitiamo attualmente, sette bambini hanno almeno un genitore che è o è stato seguito dai servizi psichiatrici. Con quest’affermazione non voglio sostenere un’ereditarietà della psicosi, ma vorrei semplicemente porre l’accento su cosa possa significare per un bambino convivere con un genitore che ha delle caratteristiche psichiatriche. Che cosa significa, per esempio, lasciare un bambino in balia di una madre delirante.
Da noi c’è una ragazza con una madre delirante che, nei primi tre anni di vita, quando iniziava a piangere veniva lasciata in una stanza buia. Stava spesso in questa stanza soprattutto quando le davano da mangiare e quando gridava. E siccome questa bambina piangeva spesso, la sua vita è cominciata così. Non si trattava di una mamma cattiva, ma di una persona che non ha trovato altro rimedio quando sua figlia piangeva.
Altri due bambini sono stati inseriti all’Antenna 112 perché la madre soffre di crisi di narcolessia: ogni volta che è sotto tensione sviene per circa mezz’ora ed i bambini rimangono in balia di loro stessi. Durante una di queste crisi uno di questi due bambini è caduto dalla finestra e si è rotto la gamba, l’altro bambino in un’altra occasione ha preso una scatola intera di antiepilettici ed è stato poi portato d’urgenza all’ospedale in rianimazione. In questi casi non si può pensare di lasciare i bambini in una situazione familiare tale e per questo ci sono delle condizioni per le quali è assolutamente necessario che questi bambini siano inseriti in una struttura come la nostra per trovare un po’ di pace e per poter cominciare ad aprirsi verso il mondo esterno.
E’ molto importante occuparsi dei bambini e dei genitori, ma la cosa più importante all’Antenna 112 sono gli operatori in quanto il funzionamento è legato a loro. Se non si sentono garantiti, le cose vanno male. Poco tempo fa ho parlato con un altro responsabile che lavora in una struttura simile alla nostra e mi ha riferito di trovarsi in una situazione difficile perché lì c’è un cambio continuo del personale che non sopporta più lo stress di questo lavoro. Da noi non è così: i primi operatori sono rimasti e in questi quattro anni di esistenza del Centro soltanto alcuni se ne sono andati per scelte professionali diverse. Comunque credo che ognuno di noi si chieda spesso: “Ma chi mi fa fare questo lavoro?”, soprattutto in situazioni difficili, quando questi bambini cominciano ad aggredire o ad autoaggredirsi, mettendo in gioco anche l’angoscia dell’operatore stesso. Infatti, il problema principale è come fare in modo che gli operatori si sentano agganciati, che siano interessati al proprio lavoro, che questo non diventi una questione di stress ma qualcosa in cui c’è ricerca soggettiva. Freud diceva che quando ci arrabbiamo, non abbiamo capito. Questo significa che nel momento in cui il bambino ci spiazza, fa una cosa che ci mette in difficoltà, o uno si arrabbia o si dice: “ qui succede qualcosa che ha una sua logica, c’è qualcosa che non ho capito” e s’incuriosisce e mette in gioco il desiderio di sapere.
Nicola per esempio si è messo due occhiali sulla testa – uno proprio di fronte all’altro, esattamente alla rovescia, attaccati con un cordoncino – e così girava tutto il giorno. Uno si chiede: “Ma che cosa significa questo?”; un’altra volta disegna un ombrello dove i goccioloni sono collocati sotto l’ombrello, come volesse affermare che qui piove sotto l’ombrello. Era molto contento del suo disegno, lo mostrava a tutti e noi gli abbiamo detto: “Che bel disegno. Ma non capisco, perché qui piove sotto l’ombrello. Normalmente l’ombrello serve perché non ci si bagni, invece qui è proprio tutto al rovescio;” e lui era contentissimo di ciò che ci chiedevamo.
La questione è proprio qui: cosa si può fare per mettere in gioco il desiderio di sapere da parte dell’operatore invece che si senta soprattutto irritato? Per questo è molto importante il lavoro con il gruppo stesso: c’incontriamo ogni settimana, da quasi cinque anni facciamo letture teoriche come formazione continua e cerchiamo la logica che ci guida nel lavoro con i nostri bambini. Non si ricomincia sempre da capo, ma quando una nuova persona si unisce, “prende il treno” e comincia lentamente a capire com’è impostato il nostro lavoro. Una volta una tirocinante ci ha detto ridendo: “In fondo i bambini sono abbastanza normali, ma gli operatori sono un po’ strani”. Non aveva visto in che condizione sono arrivati questi bambini.
Il mio compito come direttore terapeutico è di tenere alto questo desiderio di sapere in ognuno dei nostri operatori, perché se non si cerca più qualcosa in ciò che si fa tutti i giorni, questo vuol dire che è il momento di concludere con questo lavoro. Si è visto infatti che accadono delle cose strane quando una persona ha deciso di non voler più lavorare all’Antenna 112: è successo due, tre volte che dal momento in cui un operatore ha dato le dimissioni segue un periodo tendenzialmente pericoloso per lui perché in quelle poche settimane in cui lavora ancora, succede facilmente un po’ di tutto: per esempio improvvisamente si fa picchiare dai bambini, cosa mai successa prima, quasi come se questo operatore dovesse pagare un dazio a livello simbolico per poter dirsi: “Adesso posso andarmene”. Si potrebbe paragonarlo con altre situazioni di separazione, per esempio quando una coppia si separa: spesso nella fase acuta i contraenti cominciano a picchiarsi di brutto e dopo ciascuno si dice: “Adesso sono troppo offeso, non ne posso più”. Come se si cercasse un modo forte per uscire da una situazione dove comunque ognuno è affettivamente ancora molto coinvolto. Questo mi preoccupa molto perché sento che questi operatori per poter dire: “Non sto più qui, adesso me ne vado” molto facilmente si espongono troppo e cominciano a manovrare i bambini come mai prima. Per questo ritengo che tutto ciò non sia una questione di stress ma la presenza o meno nell’operatore di un desiderio in gioco di lavorare con questi bambini. Questo significa anche studiare, essere presenti a dei convegni, scrivere articoli, etc.. Se non c’è più questo, una struttura come l’Antenna prima o poi non può più esistere o si trasforma in una struttura che è regolata fondamentalmente dalla burocrazia. Per questo è assolutamente necessario che ci sia una ricerca presente e continua e che ognuno degli operatori si senta chiamato in causa, ognuno con i suoi tempi, ognuno con il suo stile, ma tutti noi che lavoriamo insieme dobbiamo avere di mira la stessa strategia.

Prof. Ferlini: Poiché manca ancora un quarto d’ora, se loro vogliono farti delle domande…
Rivolto agli studenti: ho detto al collega che manca un quarto d’ora e che io sicuramente lo inviterò ancora tante volte perché ho sentito che c’è qualche analogia col trattamento dei pazienti psicotici adulti. C’è una grossa analogia. E delle differenze, ovviamente. E allora pensavo, se siete d’accordo, di fare a lui delle domande.

(Domanda) Dott. Egge: Faccio riferimento a quel bambino che ha parlato per la prima volta con quell’infermiera di notte. Diciamo che anche noi avevamo studiato una modo di lavorare: siccome il bambino rifiutava qualunque contatto con qualsiasi persona esterna – sia nell’ambiente scolastico sia al di fuori – abbiamo pensato di coprire quasi tutta la persona con un telo ed il bambino autistico la accettava quando questa piano piano compariva, prima allungava una mano, poi un braccio.
Io ho visto adesso che si possono associare questi due eventi, cioè il fatto che questo bambino ha parlato di notte perché non era spinto da nessuna persona esterna, che lo spingesse a lavorare, e questa copertura della persona che piano piano quasi il bambino ha scoperto di sua libera volontà, e non sotto alcuna spinta.
Intervento: quando questi bambini vengono tolti alle famiglie, c’è sempre secondo me, un conflitto. Quant’è giusto lasciare una persona psicotica adulta, che può essere un padre o una madre, nel suo ambiente con un supporto e lasciarle i figli sapendo che poi si creano delle persone che hanno dei deficit che pagheranno per tutta la vita. Per me è un grossissimo conflitto.

Intervento: Io vorrei sapere come il terapeuta può gestire le emozioni che prova di fronte a determinate situazioni, affermazioni o reazioni del paziente. Lei prima ha parlato del fatto che i bambini psicotici non hanno in un certo senso un freno inibitorio, quindi la vergogna, il pudore.
Come reagisci quando un bambino ti dice una cosa come quella che ha detto il bambino all’operatrice che guidava la macchina per non fargli del male. Cosa gli rispondi – visto che è così delicato il loro mondo – vista l’importanza che ha per questi bambini saperci entrare con delicatezza.

Intervento: Io ho un po’ la sensazione che bisogna andare per tentativi ed errori con questi bambini, a parte delle linee generali di accoglienza, di creargli una situazione di sicurezza.
Non so, l’educatore che gioca a calcio cerca di insegnare le regole al bambino e si rende conto che questa cosa non funziona, quindi si mette in panchina e accetta lui le regole dal bambino. Questa è la mia sensazione, proprio che si vada per tentativi ed errori, non so.

Intervento: La mia domanda riguarda gli obiettivi che ci si pone, cioè si è soprattutto mirati al contenimento e poi dove si vuole arrivare? A rendere il bambino il più possibile normale oppure a mantenerlo soltanto in una situazione pacifica per cui non crolli in comportamenti aggressivi?
E poi quali atelier vengono fatti, proprio che tipo di interventi concreti.

Intervento: Lei ha parlato per quanto riguarda la genesi della psicosi infantile soprattutto del rapporto con la madre. Volevo sapere se c’è anche la funzione del padre e se ha un ruolo particolare e qual è in questo caso.

Intervento: Riprendendo l’ultima domanda: Lei parla della simbolizzazione primordiale della madre – il gioco del ‘fort -da’, la presenza – assenza, però non nomina quella che è la funzione del padre che si suppone a questo punto debba essere anch’essa su un piano esclusivamente simbolico in quanto non è ancora presente, diciamo, nel reale.

Dott. Egge: vi ringrazio molto per le domande, cerco di rispondere.
Quando un bambino autistico rifiuta ogni tipo di contatto, siamo in una situazione estremamente difficile. Nel bambino schizofrenico e nel bambino paranoico c’è un Altro presente che il bambino cerca di trattare. Invece nell’autismo c’è proprio questa tendenza ad evitare questo Altro. Ma comunque si può intravedere da questa reazione di evitamento dell’Altro che per il bambino autistico questo Altro esiste.
Finora esistono due principali teorizzazioni psicoanalitiche dell’autismo:
1) La prima si basa sul presupposto che l’Altro non esiste, non c’è un’alternanza tra il mondo esterno, che rappresenta in primis l’Altro e il bambino.
2) L’altra teoria invece sostiene, come lo verifichiamo noi, che la chiusura verso il modo esterno è già una risposta all’Altro e quando questo Altro è regolato, questa chiusura diminuisce sempre di più. L’autismo è per noi una reazione difensiva contro l’Altro intrusivo. Di quale struttura si tratta e in che mondo vive questo bambino, è difficile da capire finché è chiuso nel suo guscio. La struttura della psicosi si rivela successivamente, quando le difese autistiche non sono più necessarie, come succede quando i bambini detti autistici vengono inseriti da noi. Dopo poco si rivela la struttura sottostante: paranoica o – come nel maggior numero di casi – schizofrenica.
Cosa facciamo quando un bambino inizialmente rifiuta qualunque contatto? Gli proponiamo degli atelier che sono obbligatori per l’operatore ed il bambino inizialmente può esserci ma può anche non esserci, cioè il bambino non viene costretto a partecipare. Il problema è proprio qui: il bambino deve sentire che non c’è questa pressione ma che c’è qualcosa che potrebbe essere interessante. E, di fatto, quando si parla degli ateliers – è stata fatta la domanda che cosa si fa negli ateliers – bisogna dire che in fondo il nostro lavoro comincia sempre da qualcosa che questi bambini ci portano.
Ogni bambino porta il suo biglietto da visita, per esempio quando Antonio ci dice il primo giorno: “Voglio diventare ballerina”. Un altro bambino ci dice “tutte borse mie”. Quando arriva Alberta, sedicenne, non parla d’altro che di bambole e un altro porta il proprio corpo come suo oggetto. Questo vuol dire che quando questi bambini arrivano, arrivano già con qualcosa. Per esempio il “bambino delle borse” strappava a qualunque persona che entrava all’Antenna la sua borsa. Allora che cosa gli si dice? “Ah, ti interessano le borse, bene.” Così abbiamo fatto con lui un atelier delle borse in cui lui faceva dei modelli e l’operatrice faceva delle borse di stoffa secondo le sue richieste: con una tracolla, con due, con cintura, con lo zip. Questo atelier lo faceva con un’operatrice a cui piace lavorare anche col cucito. Adesso le borse non gli interessano più di tanto e si lavora su un ventaglio più variegato.
Tra parentesi vorrei solo sottolineare che negli atelier ci sono due componenti: un operatore porta un suo interesse personale e lo si aggancia a qualcosa che si pensa possa essere interessante fare con un bambino.
Per esempio Antonio, il bambino “ballerina” che cosa faceva all’inizio? Voleva sempre ballare. Prima di arrivare da noi stava davanti la TV e ballava per ore. Allora si è fatto un atelier alla settimana di ballo dove le operatrici facevano le sue girls e lui sceglieva la musica e faceva il coreografo e il primo ballerino come ha visto fare in TV. Ma dopo si faceva un atelier di musica, un atelier in cui si scrivono i testi delle canzoni, un atelier dove si facevano delle piccole pièces teatrali. Gli atelier ancorati sul versante simbolico e tematicamente a questo primo biglietto da visita, si sviluppano come una pianta – per dare un’immagine a questo – dove sotto i fogli si può vedere la nervatura strutturante.
Quando questi bambini arrivano, noi diciamo di sì senza mezzi termini a quello che loro portano, se viene per esempio un bambino a cui piace fare i bagnetti si fanno bagnetti anche tutti i giorni e anche inizialmente più spesso. (Che fare i bagni porti ad un certo benessere psicofisico al di là della pulizia corporea è in Italia, se non sbaglio, un sapere antico.)
Un’altra bambina è arrivata con uno zainetto con cremine e borotalco. Di conseguenza, uno dei primi atelier che si facevano con lei era proprio “cremine e borotalco” perché a lei piaceva fare questo.
Con Alberta, la ragazza che dice “io ho a casa 100 bambole”, “mi piacciono le bambole”, “tu hai una bambola a casa?”, “ma se ha una testa di porcellana non mi piace” che cosa si faceva? Per esempio si cominciavano a fare dei vestitini per le bambole e dopo invece, dato che lei era una ragazza anche molto trascurata fisicamente, ci si prendeva cura del proprio corpo attraverso il farsi la manicure, prepararsi dei vestiti, progettare un costume per il carnevale, etc. Adesso questa ragazzina ci tiene portare lo smalto di un’operatrice, la collana di un’altra, vorrebbe avere gli orecchini come quelli di un’altra operatrice ancora; ciò vuol dire che prende dei tratti di identità dalle varie persone e costruisce così qualcosa di suo per dare consistenza al suo enigma che concerne la sua femminilità. O, detto in altre parole, lei cerca di darsi una risposta alla sua questione: “Che cosa è una donna?”
Il problema di dover decidersi tra gli interessi di un genitore psicotico o del suo bambino, è una questione molto delicata. Sono d’accordo che non serve né farsi partner del bambino contro il genitore, né farsi partner del genitore contro il bambino. Ma il problema principale è come si può aiutare un bambino, che normalmente arriva come oggetto della madre o del padre, e i suoi genitori che hanno enorme difficoltà a separarsi dal loro figlio. Da noi c’è per esempio una bambina la cui mamma ci chiamava inizialmente anche dieci volte al giorno per chiedere se tutto andava bene; adesso non chiama quasi più ed anzi è successo qualcosa di particolare: poco tempo fa ci ha confidato che aspetta un altro bambino, cosa che, quando è arrivata sua figlia da noi, era una cosa impensabile. Spero che questa madre abbia un’altra chance per realizzare il suo ruolo materno in modo più sereno.
Sulla domanda come gestire le emozioni dell’operatore: questa è chiaramente una questione relativa a quando l’operatore è in difficoltà. Mi sembra molto importante che gli operatori possano presentare le proprie difficoltà. Anzi, ai bambini psicotici piace il fatto che noi non sappiamo tutto, che siamo persone che hanno dei difetti. Nell’esempio di prima piuttosto di sapere noi, è meglio non sapere. Spesso noi diciamo ai bambini: “Non so bene, guardiamo in un libro che cosa c’è scritto”, o cerchiamo di introdurre un terzo che sa, che non è l’operatore. Perché facciamo tutto ciò? Perché si può vedere che quando noi falliamo, questi bambini respirano. E’ come se dicessero: ”Se lui non sa tutto, allora non è neanche pericoloso”. Questo si vede anche spesso, quando si utilizza quello che noi chiamiamo “clinica ironica”. A questi bambini piace tantissimo che noi facciamo degli piccoli errori, ci colgono in fallo, (bell’uso di quest’ultima parola in questo senso) e noi giochiamo moltissimo su questo aspetto qui. Per esempio c’è un bambino che si nasconde sempre dietro alla porta e ci spaventa, ed ogni volta che lo fa diciamo: “Oh mamma mia che spavento mi hai dato!” e quando per esempio un operatore è caduto per caso, lui ha cominciato a ridere e da quel momento lì si usa più volte di fingere di inciampare e lui ogni volta che vede che siamo in difficoltà, respira come dicesse: “Ma in fondo così pericolosi non siete”. Di essere anche noi in difficoltà, di non sapere tutto, di essere incompleti, di essere dei poveri cristi, gli fa capire che noi non siamo pericolosi. Non sappiamo, non sappiamo leggere nel pensiero del bambino, e ciò ci rende non pericolosi, intrusivi o persecutori.
La stessa cosa vale per quanto riguarda la domanda: “Dove si deve arrivare con questi atelier?” La ragione principale per noi è che il bambino in qualche modo faccia qualcosa dove si presenta come soggetto e questo significa per esempio che noi chiediamo al bambino se vuole un succo di pera o d’altro, se vuole il gingerino o l’acqua gasata. Non diamo troppo da mangiare sul piatto. Così il bambino se vuole può chiedere dopo il bis; facciamo cioè in modo che il bambino si senta chiamato in causa. Per questo si sottolinea di continuo: “Chi decide sei tu!” affinché il bambino si senta rispettato. Questi bambini che finora erano sempre trattati da oggetti, dove l’Altro genitoriale decideva tutto, facciamo capire loro che non siamo noi che possono sapere se vuole mangiare il risotto coi piselli o no. Decide il bambino e se non vuole mangiare questo, aspettiamo un po’ e si vede normalmente che il bambino quando sente che non c’è pressione, dopo poco tempo, accetta tranquillamente di mangiare quello che mangiano gli altri. Se invece si comincia a premere su questi bambini, ciò diventa spesso molto problematico.
La domanda sulla funzione paterna è una questione molto importante e perciò vorrei semmai svilupparla la prossima volta. Lacan ha fatto della “preclusione del Nome del Padre” il perno della questione della psicosi. In tutte le forme di psicosi manca la funzione paterna. E che cos’è la funzione paterna quando si parla di Edipo? E’ separare il bambino dalla madre. Qual è la funzione del padre si può dire in modo molto semplice: il padre deve dire al bambino quando si infila nel letto matrimoniale: “Figliolo mio, questo è il mio posto. Fila!”. Il vietare il posto al bambino ha l’effetto di dare un posto anche a lui. Se invece un padre non c’è ed il bambino può fare quello che vuole, ciò vuol dire che automaticamente si introduce un rapporto duale tra madre e bambino e questa cosa può diventare pericolosa se la madre si soddisfa completamente nell’avere il bambino come proprio oggetto. Questo non vuol dire che i bambini che sono figli di vedove diventino automaticamente psicotici – per questo non ho parlato oggi della posizione del padre – ma è importante che ci sia qualcosa che non soddisfi del tutto la madre e si rivolga altrove, aldilà del bambino, per esempio al padre. Questo vuol dire che la funzione paterna non è ciò che fa o non fa un padre con un figlio, ma è una funzione simbolica, che quando manca si introduce un rapporto duale con il bambino, rapporto simbiotico, adesivo tra l’Altro genitoriale e il bambino. Per questo è molto importante che il bambino venga chiamato in causa da una posizione terza che lo separa dal suo primo Altro genitoriale, che è normalmente la madre, questa separazione che nel bambino psicotico non esiste.
La prossima volta parlerò di che cosa significa “essere il fallo della madre”, cioè la questione di essere l’oggetto della madre o il suo fallo. E’ proprio quello che voi avete chiamato in causa con le domande che mi avete fatto. Ma per parlare di questo ci vorrebbe veramente molto più tempo.
Vi ringrazio per la vostra attenzione.

Un commento

  1. ho letto con particolare interesse questa pubblicazione e vi ho ritrovato parecchi tratti di L, bimbo psicotico di 8 anni di cui sono insegnante di sostegno.
    L. non è in carico presso nessun tipo di struttura, la scuola e la famiglia sono gli unici enti che si prendono Cura di lui.
    Si presentano molteplici problematiche sia nel rapporto con L. che con il sistema scuola, cui mancano spazi, tempi, responsabilità e disponibilità per un bambino affetto da così grave disabilità.
    I servizi sanitari antepongono l’odiatissima “lista d’attesa” alla sua presa in carico, io chiedo gentilmente a chi legge di potermi consigliare un esperto per una consulenza on line.
    grazie
    maestra e.

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